lunedì 27 settembre 2010

L’IVA SULL’IMPORTO DELLA RIPARAZIONE ED IL FERMO TECNICO SONO COMUNQUE DOVUTI INDIPENDENTEMENTE DAL FATTO CHE SIA STATA EFFETTUATA LA RIPARAZIONE DELL’AUTOVETTURA (Cass. Civ. 27.1.2010 n. 1688)

L’IVA SULL’IMPORTO DELLA RIPARAZIONE ED IL FERMO TECNICO SONO COMUNQUE DOVUTI INDIPENDENTEMENTE DAL FATTO CHE SIA STATA EFFETTUATA LA RIPARAZIONE DELL’AUTOVETTURA (Cass. Civ. 27.1.2010 n. 1688)


Si deve ritenere sempre applicabile il consolidato principio giurisprudenziale, secondo cui il risarcimento del danno da fatto illecito ha la funzione di porre il patrimonio del danneggiato nello stesso stato in cui si sarebbe trovato senza l’evento lesivo, indipendentemente dagli esborsi effettivamente effettuati ( Tra le varie sentenze in tal senso della Cassazione si cita Cass. 5.7.2002, n. 9740).

La Sentenza in oggetto, in applicazione di detto principio recita: “poiché il risarcimento del danno si estende agli oneri accessori e consequenziali, se esso è liquidato in base alle spese da affrontare per riparare un veicolo, il risarcimento comprende anche l’iva, pur se la riparazione non è ancora avvenuta ….”. “ Con riferimento poi al cosiddetto danno da fermo tecnico subito dal proprietario dell’autovettura danneggiata a causa dell’impossibilità di utilizzarla durante il tempo necessario per la sua riparazione, è stato affermato che è possibile la liquidazione equitativa di detto danno anche in assenza di prova specifica in ordine al medesimo, rilevando a tal fine la sola circostanza che il danneggiato sia stato privato del veicolo per un certo tempo, anche a prescindere dall’uso effettivo a cui esso era destinato. L’autoveicolo, è infatti, anche durante la sosta forzata, fonte di spesa (tassa di circolazione, assicurazione)comunque sopportata dal proprietario, ed è altresì soggetta a un naturale deprezzamento di valore del veicolo (Cass. 9.11.2006, n. 23916).”

lunedì 6 settembre 2010

INFORTUNIO IN ITINERE E RISARCIMENTO DEL DANNO

INFORTUNIO IN ITINERE E RISARCIMENTO DEL DANNO
La definizione di “infortunio in itinere” è contenuta nell'art. 12 del D. Lgs. 38/2000, che recita:
"Salvo il caso di interruzione o deviazione del tutto indipendenti dal lavoro o, comunque, non necessitate, l'assicurazione comprende gli infortuni occorsi alle persone assicurate durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro, durante il normale percorso che collega due luoghi di lavoro se il lavoratore ha più rapporti di lavoro e, qualora non sia presente un servizio di mensa aziendale, durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di lavoro a quello di consumazione abituale dei pasti. L'interruzione e la deviazione si intendono necessitate quando sono dovute a cause di forza maggiore, ad esigenze essenziali ed improrogabili o all'adempimento di obblighi penalmente rilevanti. L'assicurazione opera anche nel caso di utilizzo del mezzo di trasporto privato, purchè necessitato. Restano, in questo caso, esclusi gli infortuni direttamente cagionati dall'abuso di alcolici e di psicofarmaci o dall'uso non terapeutico di stupefacenti ed allucinogeni; l'assicurazione, inoltre, non opera nei confronti del conducente sprovvisto della prescritta abilitazione di guida.".

Tale definizione deve essere interpretata alla luce degli orientamenti giurisprudenziali, per cui si rimanda alle Sentenze della Corte di Cassazione citate di seguito, che si riportano in estratto:
Cassazione n.11417/09
Costituisce orientamento interpretativo acquisito di questa Suprema Corte che il rischio elettivo, quale limite all'indennizzabilità degli infortuni sul lavoro, è ravvisabile, per richiamare una definizione sintetica ricorrente, solo in presenza di un comportamento abnorme, volontario ed arbitrario del lavoratore, tale da condurlo ad affrontare rischi diversi da quelli inerenti alla normale attività lavorativa, pur latamente intesa, e tale da determinare una causa interruttiva di ogni nesso fra lavoro, rischio ed evento secondo l'apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito (cfr. ad es. Cass. n. 15047/2007; Cass. n. 15312/2001; Cass. n. 8269/1997 ; Cass. n. 6088/1995).
Più in particolare, per configurare il rischio elettivo secondo la definizione descritta, viene richiesto: a) che il lavoratore ponga in essere un atto non solo volontario, ma anche abnorme, nel senso di arbitrario ed estraneo alle finalità produttive; b) che il comportamento del lavoratore sia motivato da impulsi meramente personali, quali non possono qualificarsi le iniziative, pur incongrue ed anche contrarie alle direttive del datore di lavoro, ma motivate da finalità produttive; c) che l'evento conseguente all'azione del lavoratore non abbia alcun nesso di derivazione con l'attività lavorativa.
Nel concorso di tali situazioni, che qualificano in termini di abnormità la causa iniziale della serie produttiva dell'evento infortunistico, il rischio elettivo si distingue, quindi, dall'atto colpevole del lavoratore, e cioè dall'atto volontario posto in essere con imprudenza, negligenza o imperizia, ma che, motivato, comunque, da finalità produttive, non vale ad interrompere il nesso fra l'infortunio e l'attività lavorativa e non ne esclude, pertanto, la indennizzabilità.
Cassazione n.12326/09
Va in generale ribadito (cfr. Cass., sez. lav., 27 gennaio 2006, n. 1712) che, perchè un infortunio occorso a un lavoratore possa ritenersi verificato in occasione di lavoro e, in quanto tale, tutelato dalle specifiche norme di protezione antinfortunistiche, occorre che sussista uno specifico collegamento tra l'evento lesivo e l'attività lavorativa. Ed in particolare - ha precisato Cass., sez. lav., 4 aprile 2005, n. 6929 - ai fini dell'indennizzabilità dell'infortunio in itinere, anche in caso di utilizzo del mezzo di trasporto privato deve aversi riguardo a criteri che individuino la legittimità, o meno, dell'uso del mezzo in questione secondo gli "standards" comportamentali esistenti nella società civile e rispondenti ad esigenze tutelate dall'ordinamento, quali un più intenso legame con la comunità familiare ed un rapporto con l'attività lavorativa diretto ad una maggiore efficienza delle prestazioni.
In particolare - ha precisato Cass., sez. lav., 23 maggio 2008, n. 13376 - l'indennizzabilità dell'infortunio subito dal lavoratore nel percorrere, con mezzo privato, la distanza fra la sua abitazione ed il luogo di lavoro, postula: a) la sussistenza di un nesso eziologico tra il percorso seguito e l'evento, nel senso che tale percorso deve costituire per l'infortunato quello normale per recarsi al lavoro e per tornare alla propria abitazione; b) la sussistenza di un nesso almeno occasionale tra itinerario seguito ed attività lavorativa, nel senso che il primo non sia dal lavoratore percorso per ragioni personali o in orari non collegabili alla seconda; c) la necessità dell'uso del veicolo privato, adoperato dal lavoratore, per il collegamento tra abitazione e luogo di lavoro, da accertarsi in considerazione della compatibilità degli orari dei pubblici servizi di trasporto rispetto all'orario di lavoro dell'assicurato, ovvero della sicura fruibilità dei pubblici servizi di trasporto qualora risulti impossibile, tenuto conto delle peculiarità dell'attività svolta, la previa determinazione della durata della sua prestazione lavorativa.

Per quanto riguarda, invece, il risarcimento del danno patito e l'intervento dell'Inail occorre distinguere tre diverse ipotesi, in base alla gravità della lesione:

1. in caso sia inferiore al 6% di invalidità: l'Inail non corrisponde nessun indennizzo per danno biologico e nessun indennizzo per danno patrimoniale;
2. dal 6% al 15% di invalidità: l'Inail indennizza il danno biologico in capitale, nessun indennizzo per conseguenze patrimoniali
3. sopra il 15% di invalidità: L'Inail indennizza il danno biologico in rendita, con un ulteriore quota di rendita per le conseguenze patrimoniali.

1) Nel primo caso, quindi di lesione inferiore al 6%, non essendoci nessun intervento da parte dell'Inail, occorrerà evidentemente chiedere il risarcimento di tutti i danni al responsabile del danno o alla società assicuratrice tenuta al risarcimento in base alle norme di legge in ambito r.c.a.
2) In particolare, nel caso di lesione tra il 6% e il 15%, il legislatore ha previsto che l'Inail versi un indennizzo in capitale. A tal proposito sono state approntate una tabella per le menomazioni e una tabella di indennizzo (aggiornate con decreto del 2009).
3) Nel caso, in fine di lesione superiore al 15%, è invece previsto un indennizzo in rendita nonchè un ulteriore quota di indennizzo in rendita relativa alle conseguenze patrimoniali presunte. A tal proposito è stata predisposta una apposita tabella dei coefficienti. il coefficiente si applica alla retribuzione effettivamente percepita dal soggetto (entro i limiti, sia nel minimo che nel massimo, previsti dal Testo Unico Inail).

Occorre sottolineare che l'Inail non risarcisce tutti i danni, ma solo il danno biologico, e secondo una definizione di danno biologico (si veda l'art.13 del d.lgs 38/00,) che è diversa da quella utilizzata dal legislatore nel settore della R.C.A., secondo una tabella diversa da quella usata in R.C.A. e con due modalità diverse a seconda che la lesione sia inferiore o superiore al 15%.

A ciò consegue che il danno biologico così indennizzato non corrisponde al danno biologico in ambito r.c.a. ed inoltre le altre voci di danno (ad es: il danno morale) non vengono comunque pagate da Inail.

Pertanto occorrerà rivolgersi al responsabile civile e/o alla sua assicurazione, per chiedere il risarcimento del danno del danno c.d. "differenziale". (TRIBUNALE DI MONZA Sentenza n° 1828/ 2005 del 7-16 giugno 2005- R.G. n.114/04).
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Per eventuali informazioni – avv. Roberto Accossato – robertoaccossato@libero.it
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TRIBUNALE DI MONZA
Sezione IV Civile
G.U. dott. PIERO CALABRO’
Sentenza n° 1828/ 2005 del 7-16 giugno 2005- R.G. n.114/04
RESPONSABILITA’ CIVILE – INCIDENTE STRADALE – DANNO BIOLOGICO – RISARCIMENTO DEL DANNO ED EROGAZIONE INDENNITARIA INAIL EX ART 13 DLG 38/2000 – DIFFERENZE – RISARCIBILITA’ DEL DANNO DIFFERENZIALE - SUSSISTONO.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato in data 30.12.2003 C.C. conveniva in giudizio, innanzi a questo Tribunale, S.R. e la ALFA. Assicurazioni spa per sentirli condannare al risarcimento dei danni sofferti in conseguenza dell’incidente stradale avvenuto il giorno 6.2.2002 in Cinisello Balsamo.
Deduceva l’attrice che, nella predetta occasione, mentre si apprestava ad ultimare l’attraversamento pedonale della via U. Giordano all’altezza del civico n.3, era stata investita dall’autovettura XXX YYY tg. 00000 (condotta dal proprietario S.R. e garantita per la RCA dalla ALFA. Assic.spa).
La compagnia convenuta, ritualmente costituitasi in giudizio, contestava l’avversa domanda solo in relazione al quantum debeatur e chiedeva di essere autorizzata alla chiamata in giudizio dell’INAIL.
Benchè ritualmente citato, il convenuto S.R. non si costituiva in giudizio, rendendosi pertanto contumace.
Ritualmente evocato nel processo dalla compagnia ALFA Assicurazioni spa, l’INAIL si costituiva in giudizio spiegando domanda riconvenzionale di condanna di entrambi i convenuti al solidale rimborso delle somme erogate all’attrice in conseguenza del sinistro, pari ad € 42.729,05.
Inutilmente disposto il tentativo di conciliazione, compiutamente trattato ed istruito il processo (anche mediante l’ausilio di una CTU medico-legale) e precisate, come in epigrafe, le conclusioni delle parti , la causa era trattenuta per la decisione dal G.I. in funzione di giudice unico ex artt.50ter e 281 quinquies CPC.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Preliminarmente, in rito, deve essere dichiarata la contumacia del convenuto S.R., non costituitosi in giudizio, benchè ritualmente citato.
Ancora in via preliminare di rito, deve essere dichiarata la inammissibilità della domanda “riconvenzionale” spiegata dall’INAIL nei confronti dello stesso S.R.: essendo, infatti, il convenuto contumace rimasto estraneo alla evocazione in giudizio del terzo chiamato, incombeva a quest’ultimo provvedere, quantomeno, alla notificazione allo stesso S. della comparsa di risposta contenente la domanda riconvenzionale.
Nel silenzio del codice di rito, in effetti, il terzo chiamato avrebbe dovuto instaurare correttamente il contraddittorio con il convenuto S.R. avvalendosi della facoltà di chiamata in giudizio disciplinata dagli artt.167 ultimo comma e 269 CPC.
L’ INAIL, invece, non solo non ha espletato tale adempimento procedurale, ma neppure ha ritenuto di potersi avvalere della facoltà processuale alternativa, talvolta riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità in vigenza del precedente codice procedurale (vedasi Cass.25.2.1963 n.466), di proposizione della domanda riconvenzionale anche nei confronti del convenuto “mediante notificazione personale nel caso di contumacia del medesimo”.
La scelta processuale omissiva, operata dal terzo chiamato, oltre che impedire l’adozione dei rimedi di cui all’art.164 CPC, impone al giudicante il rilievo d’ufficio della palese violazione del contraddittorio in tal modo perpetrata (vedasi Cass.2.4.1996 n.3060, alla luce della quale “le nullità conseguenti alla violazione del contraddittorio sono rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio...”), tantopiu’ che la contumacia dello S. impedisce di ritenere anche solo implicitamente accettato il contraddittorio sulla domanda riconvenzionale (vedasi Cass.14.4.1994 n.3475, secondo la quale “il mero silenzio serbato dalla parte in ordine alla domanda riconvenzionale irritualmente proposta non implica accettazione del contraddittorio...”).
Venendo, ora, all’esame del merito della controversia, la domanda attrice deve ritenersi fondata ed accoglibile, entro i limiti di cui appresso.
Incontestata in giudizio la esclusiva responsabilità del conducente S.R. nella causazione dell’incidente stradale occorso al pedone C.C. (responsabilità comunque sancita in via presuntiva dalla norma di cui all’art.2054 primo comma CC), non v’è dubbio che le parti convenute debbano essere solidalmente condannate al risarcimento dei danni patiti dall’attrice in conseguenza del fatto illecito de quo.
Relativamente al quantum debeatur, l’espletata CTU medico-legale ha consentito di acclarare che l’attrice ebbe a soffrire, in conseguenza del sinistro, di lesioni che comportarono un periodo di temporanea inabilità totale di gg.60, parziale di gg.60 al 75%, gg.60 al 50% e gg.165 al 30%, postumi permanenti incidenti in misura del 25% sulla sua integrità biologica ed in misura del 12-13% sulla sua capacità lavorativa specifica, nonché esborsi per spese mediche e di certificazione pari a complessivi € 801,00 .
Applicando i noti criteri liquidativi elaborati dal Tribunale di Milano (“Tabelle 2004”) dovrebbero essere riconosciute a parte attrice, ai valori monetari attuali, le seguenti somme:
-Euro 3.099,00 (Euro 51,65 al dì x gg.60) a titolo di danno biologico da inabilità temporanea totale;
-Euro 6.430,43 (Euro 38,74 al dì x gg.60 al 75% + Euro 25,82 al dì x gg.60 al 50% + Euro 15,495 al dì x gg.165 al 30%) a titolo di danno biologico da inabilità temporanea parziale;
-Euro 57.428,46 (età anni 51 all’epoca del sinistro; perc.25%) a titolo di danno biologico permanente;
-Euro 22.319,30 (un terzo del danno biologico temporaneo e permanente) a titolo di danno morale;
-Euro 11.271,46 a titolo di danno permanente alla capacità lavorativa, liquidato in misura pari a quanto richiesto dalla danneggiata in comparsa conclusionale, secondo i noti criteri del c.d. calcolo tabellare, mediante l’applicazione di un coefficiente di sopravvivenza pari a 13,339 (secondo le tabelle di cui al RD 9.10.1922 n.1403) e del conseguente notorio scarto tra vita fisica e vita lavorativa, di una percentuale di incapacità lavorativa permanente del 12,5% e di un reddito annuo pari ad € 13.000,00 .
Le spese mediche possono essere liquidate in € 801,00 (come da CTU).
Nulla, invece, dovrebbe essere liquidato a titolo di danno esistenziale (non avendo l’attrice offerto alcuna dimostrazione dei requisiti ai quali la giurisprudenza di legittimità ne ha subordinato il riconoscimento), nonché per i non provati ulteriori “danni a cose”.
Peraltro, poiché C.C. ha già ottenuto dall’INAIL la liquidazione, in aggiunta alla indennità temporanea (non biologica), degli ulteriori importi di € 15.849,49 a titolo di danno biologico permanente e di € 12.068,33 a titolo di danno patrimoniale (vedasi l’attestazione di credito, doc.2, fasc. terzo chiamato), potranno esserle in questa sede liquidate le sole somme dovute quale ristoro del c.d. “danno differenziale” in relazione agli anzidetti titoli.
Reputa, al riguardo, il Tribunale che tale liquidazione possa essere riconosciuta alla C. mediante una corretta interpretazione della normativa di cui all’art.13 del D.Lgs. 23.2.2000 n.38, senza alcuna necessità di ricorrere allo strumento della rimessione alla Corte Costituzionale della questione di legittimità costituzionale sollevata dalla difesa dell’attrice.
Ciò, alla luce delle seguenti argomentazioni in diritto.
L'entrata in vigore del D.Lgs 38/2000 (nel cui ambito applicativo rientra il fatto illecito oggetto del presente giudizio, quale infortunio in itinere) ha integralmente modificato il quadro di riferimento giurisprudenziale attinente la liquidazione del danno biologico nell’ipotesi di infortunio sul lavoro.
L'art. 13 del predetto D. Lgs 38/2000 riconduce, infatti, il danno biologico alla copertura assicurativa obbligatoria, prevedendo un'articolata serie di criteri di computo per la sua determinazione e liquidazione.
All’interprete si è immediatamente posto il problema se le somme erogate dall'INAIL, in applicazione dei criteri di calcolo di cui al citato art. 13, siano da considerarsi esaustive del diritto al risarcimento del danno biologico sofferto dal danneggiato/assicurato, oppure se residui in capo al datore di lavoro (ovvero al terzo danneggiante) l'obbligo di risarcire l'eventuale danno "differenziale", inteso quale maggior pregiudizio sofferto in concreto.
Orbene, reputa questo Tribunale di non poter ritenere che, nel caso di specie,l'erogazione operata dall'INAIL quale indennizzo del danno biologico copra integralmente il pregiudizio a tale titolo subito dall’attrice.
In proposito si osserva che, se pur è vero che la liquidazione alla stregua dei parametri di cui al citato art. 13 avviene in misura indipendente dalla capacità di produrre reddito del danneggiato, nondimeno tale norma prevede la definizione del danno biologico solo "in via sperimentale" ed ai soli "fini della tutela dell'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali".
Per di piu’, la norma previdenziale in esame si pone espressamente quale anticipazione “della definizione di carattere generale di danno biologico e dei criteri per la determinazione del relativo risarcimento" ancora oggi attesa e correlata a nuove produzioni legislative.
Questi dati letterali dimostrano che la prospettiva applicativa, esplicitata dallo stesso art. 13 D.Lgs 38/2000, non è quella di definire in via generale e omnicomprensiva tutti gli aspetti risarcitori del danno biologico, ma solo quella di determinarli agli specifici e limitati fini dell'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali.
Ciò appare ancor piu’ vero se si tiene conto che le erogazioni di somme effettuate dall'INAIL sono qualificabili alla stregua di un mero indennizzo, cioè di un istituto che, a differenza del risarcimento, non appare necessariamente riconducibile ad un fatto illecito (contrattuale o aquiliano) e che può, pertanto, prescindere dall'elemento soggettivo di chi ha realizzato la condotta dannosa e persino dalla individuazione di un responsabile diverso dallo stesso danneggiato.
Anche ex parte creditoris il diritto all'indennizzo erogato dall’INAIL si struttura in modo diverso dal risarcimento del danno:mentre, infatti, il diritto alla rendita erogata dall’Istituto si estingue con la morte dello stesso beneficiario, il diritto al risarcimento entra a far parte del patrimonio ereditario del danneggiato.
Sussistono, inoltre, sostanziali divergenze di riferimento a norme primarie tra l'indennizzo erogato ex art.13 D.Lgs 38/2000 ed il risarcimento del danno biologico: mentre quest'ultimo ha trovato ab origine il proprio riconoscimento nell’articolo 32 della Costituzione ed è tuttora finalizzato a risarcire il danno nella esatta misura in cui si è verificato, l'indennizzo INAIL ha dato applicazione all’art 38 della Costituzione e risponde alla funzione sociale di garantire mezzi adeguati al lavoratore infortunato.
L’evidente diversità strutturale e funzionale, sussistente tra l'erogazione effettuata ex art. 13 D.Lgs. 38/2000 ed il risarcimento del danno biologico, consente di escludere, quindi, che le somme versate dall’INAIL a tale titolo possano considerarsi integralmente satisfattive del diritto al risarcimento del danno biologico in capo all'infortunato, laddove l'applicazione delle usuali tabelle di liquidazione portino a ritenere sussistente un danno "differenziale" ulteriore rispetto all'ammontare liquidato dall' Istituto.
La palese e marcata differenza sussistente tra l’indennizzo INAIL ed il risarcimento del danno, sotto il profilo della struttura e degli effetti, esclude inoltre l’utilizzabilità dei parametri di cui all’art. 13 quali riferimenti vincolanti ai fini della liquidazione del risarcimento del danno biologico secondo criteri equitativi.
Alla stregua di tali considerazioni si rileva, quindi, come le prestazioni erogate dall'INAIL nel caso di specie non possano ritenersi satisfattive del diritto al risarcimento del danno biologico sofferto da C.C., mentre risultano esserlo quanto al danno patrimoniale (identificabile con il danno alla capacità lavorativa specifica) richiesto dall’attrice in comparsa conclusionale in misura (€ 11.271,46) addirittura inferiore a quanto già erogato dall’INAIL (€ 12.068,33).
Ne consegue che il danno biologico differenziale sofferto dall’attrice debba essere liquidato, ai valori attuali, in € 41.578,97 (cioè € 57.428,46 - € 15.849,49), senza alcuna necessità di rimettere al “Giudice delle Leggi” la eccepita questione di legittimità costituzionale dell’art.13 del Decreto Legislativo 23.2.2000 n.38.
I convenuti, in definitiva, debbono essere solidalmente condannati al pagamento, in favore dell’attrice, della residua somma di € 38.378,70 (€ 3.099,00 + € 6.430,43 + € 41.578,97 + € 22.319,30 + € 801,00 - € 35.850,00 già versati da ALFA Assicurazioni spa a titolo di acconto : docc.4-5-6 fasc.convenuta) oltre agli interessi legali sull’intero importo inizialmente dovuto dal fatto (6.2.2002) al saldo, previa detrazione dal capitale degli acconti di volta in volta versati dalla compagnia convenuta.
Non rimane, infine, al giudicante che procedere all’esame delle pretese risarcitorie (per danno morale e danno esistenziale) svolte in giudizio da B.S.
Per le medesime ragioni esplicitate nel disattendere l’analoga richiesta svolta dall’attrice, non potrà essere liquidato all’intervenuto alcun importo a titolo di danno esistenziale (non avendo B.S. offerto alcuna dimostrazione dei requisiti ai quali la giurisprudenza di legittimità ne ha subordinato il riconoscimento),
Quanto, invece, al risarcimento del danno morale chiesto dall’intervenuto in proprio, si ricorda preliminarmente come l'effettiva sussistenza di tale diritto risarcitorio appaia agevolmente affermabile sulla scorta dell'ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, che riconosce ai prossimi congiunti di un soggetto leso il diritto al risarcimento del danno anche in assenza del decesso dell'infortunato, come conseguenza diretta e immediata del fatto lesivo (così Cass. SS.UU. 22.5.2002, n° 2002).
Deve, pertanto, qualificarsi come innegabile il diritto al risarcimento del danno morale in capo a B.S. (quale marito convivente dell’attrice), in considerazione dell'indubbia valenza emotiva che può aver comportato (e comporta) il fatto che C.C. si trovi nelle gravi condizioni di salute accertate dal CTU.
Tale titolo di danno, in considerazione del rapporto di coniugio con la danneggiata, può essere liquidato in via di equità e congruità nella misura di € 10.000,00 ai valori monetari attuali.
I convenuti, per ciò, debbono essere solidalmente condannati al pagamento, in favore dell’intervenuto, della sola somma di Euro 10.000,00 oltre agli interessi legali dal fatto (6.2.2002) al saldo.
Infine, la compagnia assicuratrice convenuta dovrà essere condannata al pagamento in favore dell’INAIL, a titolo di surroga ex artt.1916 e 2043 CC, della incontestata complessiva somma di € 42.729,05 (doc.2 fascicolo terzo chiamato), oltre agli interessi legali dalla messa in mora (lett.17.9.2003, doc.5) al saldo e con esclusione della richiesta rivalutazione monetaria (trattandosi di credito meramente pecuniario).
Le spese processuali (ivi comprese quelle di CTU e di CTP) seguono la soccombenza dei convenuti nei confronti dell’attrice e dell’intervenuto in ragione della metà, previa declaratoria di compensazione inter partes della rimanente metà, atteso l’accoglimento solo parziale delle loro domande.
La convenuta ALFA Assicurazioni spa dovrà, invece, essere condannata a rifondere integralmente le spese processuali sostenute all’INAIL, che ha ottenuto l’integrale accoglimento della propria domanda.
La presente sentenza deve essere munita della clausola di provvisoria esecutività di cui all’art.282 CPC.
p.q.m.
Il Tribunale, pronunziando sulle domande proposte con atto di citazione notificato in data 30.12.2003 da C.C. nei confronti di S.R. e di ALFA Assicurazioni spa, nonché sulle domande svolte dal terzo chiamato INAIL e dall’intervenuto B.S. nei confronti dei convenuti, così provvede:
1)dichiara la contumacia di S.R.;
2)dichiara inammissibile la domanda riconvenzionale spiegata dal terzo chiamato nei confronti del predetto convenuto;
3)in parziale accoglimento della domanda attrice, condanna le parti convenute al solidale pagamento, in favore di C.C., del residuo importo di € 38.378,70 oltre agli interessi legali con le decorrenze meglio in motivazione specificate;
4)in parziale accoglimento della domanda svolta dall’intervenuto, condanna i convenuti al solidale pagamento, in favore di B.S., della somma di € 10.000,00 oltre agli interessi legali dal 6.2.2002 al saldo;
5)in accoglimento della domanda riconvenzionale spiegata dall’INAIL nei confronti di ALFA Assicurazioni spa, condanna quest’ultima al pagamento, in favore del terzo chiamato, della somma di € 42.729,05 oltre agli interessi legali dalla messa in mora (17.9.2003) al saldo;
6)condanna i convenuti al solidale pagamento di metà delle spese processuali in favore dell’attrice e dell’intervenuto, rispettivamente liquidata nella misura di € 4.214,00 (di cui € 214,00 per esborsi, € 850,00 per diritti ed € 3.150,00 per onorari) e di € 1.147,00 (di cui € 47,00 per esborsi, € 300,00 per diritti ed € 800,00 per onorari),oltre spese generali, IVA e CPA, dichiarando inter partes compensata la rimanente metà;
7)condanna ALFA Assicurazioni spa all’integrale pagamento delle spese processuali in favore dell’INAIL, liquidate in € 3.523,00 (di cui € 523,00 per diritti ed € 3.000,00 per onorari), oltre spese generali, IVA e CPA;
8)pone le spese di CTU e CTP a carico definitivo delle parti convenute in misura della metà, dichiarando compensata la rimanente metà tra le predette parti e l’attrice;
9)dichiara la presente sentenza provvisoriamente esecutiva;
10)visti gli artt.59 e 60 del DPR n.131/1986, indica nelle parti convenute, tenute al risarcimento del danno, i soggetti nei confronti dei quali deve essere recuperata l’imposta eventualmente prenotata a debito.
MONZA, 7.6.2005
IL GIUDICE UNICO
(dott. Piero Calabrò)

venerdì 14 maggio 2010

MAESTRA RESPONSABILE PER INCIDENTE OCCORSO A UN BAMBINO LASCIATO SOLO NEL BAGNO

La maestra e' responsabile per 'culpa in vigilando' gravando su di lei non solo "l'obbligo di istruire ed educare" gli alunni ma anche di "proteggerli". Con questa motivazione la terza sezione civile della Corte (sentenza 9906/2010) ha confermato una condanna al risarcimento inflitta al ministero della Pubblica istruzione per i danni subiti da una bambina di tre anni che aveva subito un infortunio mentre era andata in bagno. La piccola, era stata accompagnata dall'insegnante ma era stata lasciata sola perchè la maestra era dovuta tornare in classe dove erano rimasti altri 26 bambini.


Cass. civ., Sez. III, Sentenza 26 aprile 2010, n. 9906


Svolgimento del processo

C. P. ed A. N., in proprio e quali esercenti la potestà genitoriale sulla minore S. P., convenivano, davanti al tribunale di Lecce, M. M. ed il Ministero della Pubblica Istruzione, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti dalla minore in occasione di un incidente occorsole all’interno della scuola materna dalla stessa frequentata. Precisavano, a tal fine, che verso le ore 10 del omissis la bimba era stata accompagnata dalla maestra M. M., che poi era ritornata in classe, in bagno; che la bimba aveva tirato la cordicella dello scarico, il cui gancio si era rotto e, cadendo, le aveva colpito l’occhio sinistro procurandole gravi lesioni.
Si costituiva la M. sostenendo che nessuna colpa le poteva essere addebitata per l’incidente, ed il Ministero della Pubblica Istruzione che eccepiva il proprio difetto di legittimazione passiva, essendo l’obbligo della custodia e della manutenzione degli edifici adibiti a scuola materna a carico del Comune di omissis, concludendo per il rigetto della domanda.
Il giudice ordinava la chiamata in causa del Comune, che si costituiva negando la propria responsabilità, non essendogli mai stati richiesti interventi di custodia e manutenzione che, peraltro, non gli competevano.
Il tribunale, con sentenza del 14.9.2001, accoglieva la domanda sul presupposto che l’incidente si era verificato per culpa in vigilando dell’insegnante, condannando il Ministero della Pubblica Istruzione al risarcimento dei danni e rigettando la domanda nei confronti del Comune di omissis.
Ad eguale conclusione perveniva la Corte d’Appello che, con sentenza del 7.10.2005, rigettava l’appello proposto dal Ministero della Pubblica Istruzione.
Quest’ultimo ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi.
Resistono C. P. ed A. N. nella qualità indicata.
Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva.

Motivi della decisione

Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa interpretazione di norme di diritto: artt. 113, 115 e 116 cpc e art. 118 disp. att. cpc; ed insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti.
Il ricorrente censura la sentenza impugnata per non avere indicato l’elemento colposo nella condotta della maestra ed il rapporto che lega l’evento alla riconosciuta responsabilità della Pubblica Amministrazione non rilevando, sotto quest’ultimo profilo, che, una volta esclusi il dolo o la colpa grave della maestra, andava esclusa anche la responsabilità della P.A.
Il motivo non è fondato.
Invero, in tema di responsabilità civile di cui all’art. 2048 cc, è ormai principio pacificamente riconosciuto nella giurisprudenza della Corte di cassazione (S.U. 27.6.2002 n. 9346, ribadita poi da S.U. 11.11.2008 n. 26972) quello per cui la responsabilità dell’istituto scolastica e dell’insegnante, nel caso di danno cagionato dall’alunno a se stesso, sia di natura contrattuale.
Fra allievo ed istituto scolastico - con l’accoglimento della domanda di iscrizione e con la conseguente ammissione dello stesso alla scuola - si instaura, infatti, un vincolo negoziale, dal quale sorge, a carico dell’istituto, l’obbligazione di vigilare sulla sua sicurezza ed incolumità nel periodo in cui questi fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni, anche al fine di evitare che l’allievo procuri danno a se stesso.
Quanto al precettore, dipendente dell’istituto scolastico, tra insegnante ed allievo si instaura, per contatto sociale, un rapporto giuridico (che quindi può dare luogo ad una responsabilità di tipo contrattuale e non aquiliana), nell’ambito del quale l’insegnante assume, nel quadro del complessivo obbligo di istruire ed educare, anche uno specifico obbligo di protezione e vigilanza, al fine di evitare che l’allievo si procuri, da solo, un danno alla persona.
La ricorrenza di un’ipotesi di responsabilità di tipo contrattuale comporta poi - in ordine all’onere probatorio - che, nelle controversie instaurate per il risarcimento del danno da autolesione nei confronti dell’istituto scolastico e dell’insegnante, l’attore dovrà soltanto provare, ai sensi dell’art. 1218 cc, che il danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, mentre sarà onere dei convenuti dimostrare che l’evento dannoso è stato determinato da causa agli stessi non imputabile.
In ordine, poi, alla responsabilità degli insegnanti di scuole statali - come nella specie -, l’art. 61, secondo comma, della legge 11 luglio 1980, n. 312 - nel prevedere la sostituzione dell’Amministrazione, salvo rivalsa nei casi di dolo o colpa grave, nelle responsabilità civili derivanti da azioni giudiziarie promosse da terzi - esclude in radice la possibilità che gli insegnanti statali siano direttamente convenuti da terzi nelle azioni di risarcimento danni da culpa in vigilando, quale che sia il titolo - contrattuale o extracontrattuale - dell’azione.
Sulla base di questi principi, la Corte di merito, nel riconoscere la responsabilità dell’insegnante per culpa in vigilando, ha, a tal fine, precisato che “... La piccola S. dell’età di omissis anni, accompagnata in bagno dalla maestra che è ritornata immediatamente in classe ove aveva lasciato incustoditi altri 26 bambini, non doveva essere lasciata sola”, avvalendosi eventualmente dell’ausilio e l’intervento del personale non docente, “ma sempre su interessamento della maestra che aveva la responsabilità di vigilare sui bimbi ad essa affidati”; concludendo che, al di là della circostanza che la rottura della catenella del W.C. era circostanza imprevedibile, “resta comunque la mancata sorveglianza necessitata in considerazione dell’età della bambina che non era in grado di valutare le conseguenze di un gesto apparentemente innocuo...”.
La Corte di merito ha, quindi, puntualmente individuato nella mancata sorveglianza, anche tramite l’ausilio di terzi (il personale non docente della scuola materna), il titolo della responsabilità a carico dell’insegnante, che concretizzava non colpa grave o dolo, ma comunque era ad essa ascrivibile.
Di qui, la responsabilità del Ministero ricorrente.
Né alcuna prova è stata fornita da parte dell’odierno ricorrente, cui incombeva, che l’evento dannoso fosse stato determinato da causa agli stessi convenuti non imputabile.
Con il secondo motivo denuncia la insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti.
Il ricorrente sostiene che la Corte di merito è incorsa nel vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo, perché, pur avendo “rilevato ed affermato che la maestra non è dipendente dell’amministrazione, la scuola materna non è statale...”, ha, comunque, affermato che “era suo dovere non lasciare sola la bambina o chiamare qualcuno a tal fine”.
Il motivo non è fondato.
Invero, l’odierno ricorrente attribuisce alla Corte di merito affermazioni che, viceversa, la sentenza indica come motivi dell’appello proposto dal Ministero, odierno ricorrente.
Anzi, a questo proposito, la Corte di merito, nel ritenere privo di fondamento il motivo, ha chiaramente rilevato che “Mai in primo grado è stato contestato che la scuola materna di cui si discute fosse una scuola statale e che, quindi, la M. fosse dipendente del Ministero della Pubblica Istruzione; né in questa sede è stata data dimostrazione di un assunto soltanto accennato”.
Il ricorrente non ha contestato, in questa sede, la circostanza che, quindi, non solo resta indimostrata, ma anche inconsistente nell’economia dell’argomentare difensivo.
Con il terzo motivo denuncia la omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti.
Contesta il ricorrente che la Corte di merito avrebbe omesso qualsiasi motivazione in ordine alla sostenuta responsabilità del Comune, essendosi l’evento dannoso verificato per difetto di realizzazione o costruzione o di manutenzione ordinaria dell’edificio adibito a scuola materna.
Anche questa censura non può essere condivisa.
La Corte di merito ha, a tal fine, puntualmente rilevato e correttamente motivato che “Accertata come innanzi la negligenza dell’insegnante consequenziale è l’obbligo del Ministero di risarcire il danno come statuito dal primo giudice”.
Derivandone: “Dal che la inutilità di qualsivoglia indagine nei confronti del Comune”, e chiarendo “Questo perché il Ministero non ha mai esercitato alcuna azione di rivalsa nei confronti dell’Ente, e P. C. e N. A. hanno fatto acquiescenza alla sentenza di primo grado non spiegando appello incidentale per ottenere la condanna in solido dei due enti”.
È di tutta evidenza, in considerazione delle conclusioni cui si è pervenuti nell’esame del primo motivo, che la Corte ha, quindi, correttamente motivato anche sotto l’aspetto denunciato.
Conclusivamente, il ricorso va rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e, liquidate come in dispositivo in favore dei resistenti, vanno poste a carico del ricorrente.

P.Q.M.

La Corte Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese in favore dei resistenti che liquida in complessivi euro 3.200,00, di cui euro 3.000,00 per onorari, oltre spese generali ed accessori di legge.

mercoledì 14 ottobre 2009

COMUNE CONDANNATO A RISARCIRE L'INFORTUNATO

Per i danni al parco giochi paga il Comune Cass. sez. civ. sentenza n. 20415/09

La Cassazione ha affermato che il comune deve risarcire il danno, sia quando l'infortunato è un bambino sia quando a farsi male è un genitore e che per sollevarsi delle responsabilita' non e' sufficiente che il Comune abbia provato le buone condizioni di manutenzione delle strutture e l'uso improprio di esse dovendo anche "dimostrare che tale utilizzazione e' assolutamente inusuale sia da parte dei minori e delle persone adulte e quindi imprevedibile".
Nel Caso in oggetto: la mamma si fa male mentre aiuta il bimbo a scendere dallo scivolo? Risarcire il danno tocca al Comune anche se la donna è salita in senso inverso sulla struttura. Perché ricorrono tutti gli estremi della responsabilità per custodia ex articolo 2051 Cc («Danno cagionato da cose in custodia»). Il custode della cosa che ha creato il danno, infatti, è il responsabile oggettivo dell’evento e si libera solo quando fornisce la prova del fortuito, autonomo o incidentale.

Cassazione - Sezione terza - sentenza 21 maggio - 22 settembre 2009, n. 20415Presidente Massera - Relatore ChiariniSvolgimento del processo

I. S. conveniva in giudizio nel gennaio 1995 il Comune di omissis deducendo che mentre aiutava il figlio a scendere dallo scivolo nella villa comunale, a causa della mancanza di una vite di fissaggio, il quarto dito della mano sinistra era rimasto impigliato nella lamiera, ed in conseguenza delle gravi lesioni le era stato amputato.Il Tribunale di Nola accoglieva la domanda e condannava il Comune a pagarle Euro 13.944,29, da rivalutare.Con sentenza del 27 giugno 2007 la Corte di appello di Napoli accoglieva il gravame del Comune sulle seguenti considerazioni: 1) dalle prove assunte era risultato che la S., dopo aver preso il figlio minore salendo in senso inverso sullo scivolo ed averlo riconsegnato al padre, nello scendere, seduta, il dito anulare sinistro, impigliatosi in una parte meccanica, si era amputato; 2) non vi era prova alcuna della mancanza della vite di fissaggio, mentre la sporgenza di una di esse, non interamente avvitata, emergente dalle foto scattate dall'attrice - senza provare che la riproduzione fotografica fosse avvenuta subito dopo il sinistro - non prova il nesso causale con l'accaduto, non avendo la vite la possibilità di trattenere il dito, né risultando alcuna fessurazione sullo scivolo, in lamiera su tubolari, dotato di maniglie sulla parte superiore e di sponde laterali; 3) era pertanto da ritenere, sulla base degli elementi raccolti, che la mano della S. sia rimasta incastrata tra il piano di discesa ed il sottostante tubolare afferrato nel risalire lo scivolo dal basso; 4) sussisteva la custodia dello scivolo da parte del Comune e poiché era situato in un giardino comunale le famiglie ed i minori che lo usano devono poter fare affidamento sulla sicurezza dell'impianto; 5) tuttavia la S. non aveva provato il nesso causale tra l'accaduto e lo scivolo come conseguenza normale della sua particolare condizione, potenzialmente dannosa, essendovi al contrario la prova di un uso anomalo dello stesso, poiché la S. era salita in senso inverso e tale fatto - c.d. fortuito attribuibile al terzo o al danneggiato - era idoneo da solo a cagionare l'evento, escludendo perciò la responsabilità del Comune per mancanza di nesso eziologico diretto tra lo scivolo ed il danno.Ricorre per cassazione I. S. cui resiste il Comune di omissis. Le parti hanno depositato memoria per la decisione in camera di consiglio ai sensi dell'art. 380 bis cod. proc. civ., rinviata alla pubblica udienza ai sensi dell'ultimo comma della predetta norma.
Motivi della decisione
1. - Con il primo motivo la ricorrente deduce: “Violazione e falsa applicazione degli artt. 1227, 2043, 2051 e 2697 c.c., 99, 112, 113, 115 e 116 c.p.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.)”.Premesso che la potenzialità dannosa dello scivolo discende dalle sue caratteristiche intrinseche mancando indicazioni del Comune sulle regole per il corretto uso dello scivolo, la Corte di merito, pur riconoscendo che l'incidente fu determinato dalla condizione dello scivolo, ha poi ritenuto fattore esterno da solo sufficiente a determinare l'evento la discesa della S., normalmente seduta sullo scivolo, su cui era salita per far scendere il figlio, ma senza esaminare se l'uso del bene fosse così singolare da non essere prevedibile, né se quanto meno il comportamento della S. fosse da considerare concorrente nella determinazione dell'evento, ai sensi del primo comma dell'art. 1227 c.c. e senza considerare che l'incidente non si sarebbe verificato se l'impianto fosse stato costruito e mantenuto in modo adeguato e regolare. Conclude quindi con il seguente quesito di diritto: “La responsabilità ex art. 2051 c.c. è di natura oggettiva ed è connessa unicamente alla potenzialità dannosa della cosa in custodia; per escluderla non vale riferirsi al comportamento del danneggiato, che nel nostro caso era discesa da uno scivolo per giochi dei bambini, dato che ciò non può esser considerato idoneo ad interrompere il nesso tra la pericolosità della cosa e danno, ma se mai idoneo ad integrare un concorso di colpe”.2. - Con il secondo motivo deduce: “Omessa, contraddittoria insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 n. 5 c.p.c.)”.Anche se la ricostruzione dell'accaduto - incastro del dito mentre la S. risaliva lo scivolo - fosse esatta, comunque la causa dell'incidente non è la salita in senso inverso, ma l'incastro del dito tra il tubolare ed il piano di discesa, elementi - condizione dell'impianto potenzialmente dannosi per tutti e quindi il nesso eziologico non è escluso, ma se mai attenuato.Il fatto controverso è la mancanza di una precisa individuazione dell'atto o del comportamento interruttivi del nesso di causalità; si indica la ragione dell'insufficienza della motivazione nella mancanza di una specifica argomentazione in ordine all'estremo del comportamento della ricorrente che avrebbe interrotto il nesso di causalità.I motivi, connessi, sono fondati.Per escludere la responsabilità da cosa in custodia a norma dell'art. 2051 cod. civ., il custode ha l'onere di provare che l'evento è stato cagionato da fatto estraneo ad essa - che può dipendere anche dalla condotta colpevole di un terzo o della stessa vittima (c.d. fortuito incidentale) - del tutto eccezionale, secondo il principio della regolarità e probabilità causale in quelle circostanze di tempo e di luogo, sì da essere imprevedibile, e perciò inevitabile. Pertanto, non qualsiasi uso improprio o anomalo della cosa in custodia rispetto alla sua destinazione funzionale configura il caso fortuito, perché se invece la condotta concorrente del terzo nella causazione dell'evento non è assolutamente imprevedibile ex ante, persiste il nesso di causalità con la cosa e la sua funzione (Cass. 2563/2007), salva la limitazione del risarcimento del danno per gli effetti dell'art. 1227 cod. civ., da valutare dal giudice di merito (Cass. 11227/2008). Quindi, poiché funzione dell'art. 2051 cod. civ. è di imputare la responsabilità a chi si trova nelle condizioni di controllare i rischi ad essa inerenti (Cass. 4279/2008 e 20317/2005) - e questa è la ragione per cui, ai fini della responsabilità del custode per l'evento dannoso, è sufficiente che il danneggiato provi il nesso causale con la cosa custodita, indipendentemente dalla pericolosità attuale o potenziale della stessa - il dovere del custode di segnalare il pericolo connesso all'uso improprio - da parte del terzo o del danneggiato - della cosa si arresta soltanto al caso in cui la pericolosità dell'anomala utilizzazione di essa, intesa come fattore causale esterno (Cass. 15429/2004), sia talmente evidente ed immediatamente apprezzabile da chiunque, da renderla del tutto imprevedibile e perciò inevitabile (Cass. 20334/2004, 25029/2008).Pertanto, incontroverso che l'evento dannoso occorso alla S. è stato cagionato dallo scivolo situato nella villa comunale, per escludere la responsabilità del Comune, custode di esso, non è sufficiente che il Comune abbia provato le buone condizioni di manutenzione dello stesso e l'uso improprio del predetto gioco da parte della S., salita aggrappandosi ai tubolari sottostanti il piano in lamiera predisposto per la discesa anziché dalle apposite scalette, dovendo altresì il Comune dimostrare che tale utilizzazione era assolutamente inusuale, sia da parte dei minori che delle persone adulte, e quindi imprevedibile, sì che la condotta della S. ha interrotto il nesso causale tra lo scivolo e l'amputazione del dito che la parte sottostante della lamiera di esso ha provocato, e che di conseguenza l'evento non era evitabile mediante l'adozione di opportune cautele, come ad esempio il divieto di tale uso improprio, ovvero il rivestimento dei tubolari sottostanti la lamiera con materiale di gomma o comunque non tagliente.Pertanto il ricorso va accolto, la sentenza impugnata va cassata, e la causa va rinviata per nuovo esame alla luce delle norme - tra cui l'art. 1227 cod. civ. - e dei principi innanzi richiamati.Il giudice del rinvio provvederà altresì a liquidare le spese, anche del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso; cassa e rinvia, anche per le spese del giudizio di Cassazione, alla Corte di appello di Napoli, altra Sezione.

(avv. Roberto Accossato)
robertoaccossato@libero.it

mercoledì 13 febbraio 2008

Infortuni e risarcimento danni

Finalità della rubrica giuridica
Questa rubrica giuridica si propone di presentare e chiarire alcuni temi giuridici in maniera semplice in modo da dare anche spunti di riflessione al lettore ed essere utile per la lettura in chiave giuridica di alcuni fatti che comunemente accadono. Saranno trattati alcuni temi che si ritengono interessanti in ambito di diritto civile e di famiglia (es.:Responsabilità oggettiva nel risarcimento del danno, Responsabilità medica, nuove disposizioni in tema di affido congiunto nel caso di divorzio, Responsabilità dei genitori, diritto dei consumatori,riforma del codice in tema di RCA). Se avete domande specifiche relative ai temi trattati, volete approfondire alcune tematiche oppure avete richieste relative agli argomenti che volete siano trattati in questa rubrica, contattate l’indirizzo mail robertoaccossato@libero.it .

NUMERO 1: RESPONSABILITA’ OGGETTIVA NEL RISARCIMENTO DEL DANNO
Quando sussiste la responsabilità da cose in custodia? Il caso del condominio è responsabile per danni.
In questo numero tratteremo alcuni casi comuni per spiegare il concetto di responsabilità da danno causato da cose in custodia disciplinato dall’art. 2051 del Codice civile intitolato “Danno cagionato da cosa in custodia”, il quale recita testualmente: “Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”.
Prendiamo il caso di una signora che cade dalla scala condominiale da cui si accede al garage. La caduta è stata provocata da una macchia di olio presente sulla scala ma non visibile. La signora, a seguito della caduta, ha riportato la frattura di una gamba. Su chi grava la responsabilità dell’accaduto? Quale diritti ha la signora per vedere risarciti i danni subiti a seguito della sua caduta? Da un punto di vista giuridico, quali sono le chiavi di lettura di un caso del genere, appunto piuttosto comune?
Innanzitutto in questo caso la signora ha diritto ad ottenere il risarcimento del danno subito dal condominio in cui è avvenuto il fatto sulla base dei seguenti principi giuridici.
La giurisprudenza ritiene che il condominio di un edificio, rappresentato dall’amministratore, sia custode dei beni e dei servizi comuni ed in quanto tale è obbligato ad adottare tutte le misure necessarie affinché le cose comuni non arrechino pregiudizio ad alcuno e risponde in base all’art. 2051 del codice civile dei danni cagionati da queste ad un condomino o ad un terzo. La responsabilità delle cose in custodia ha inoltre un carattere oggettivo ed è sufficiente, perché essa si configuri, che sussista un nesso causale tra la cosa in custodia ed il danno arrecato. In altre parole ciò significa che basta che il danno sia arrecato da una struttura all’interno del condominio senza che vi sia bisogno di dimostrare che sussiste una colpa in capo ad esso, in quanto si deve presumere l’osservanza dell’obbligo di vigilanza delle cose in custodia da parte del condominio. Quindi per ottenere il risarcimento dei danni basterà che la Signora dimostri soltanto che la caduta è avvenuta a causa della macchia d’olio che era sulla scala, che è il nesso causale tra le cose in custodia da parte del condominio e il fatto dannoso. Quella macchia, se ci fosse stata diligenza nella custodia dei beni condominiali non ci sarebbe dovuta essere e quindi non sarebbe stata la causa del danno alla signora o a chicchessia.
L’unico caso in cui il condominio non sarebbe responsabile del risarcimento del danno sarebbe solo nel caso di avvenimento fortuito, cioè di un avvenimento assolutamente imprevedibile, inevitabile, autonomo, come ad esempio un fulmine, un terremoto od un altro evento simile. Questi sono comunque casi rarissimi e comunque da valutare singolarmente.

Idem per gli animali….
L’articolo 2052c.c. è collegato similarmente all’art. 2051c.c. e riguarda la custodia degli animali per cui attenzione alla custodia dei vostri animali che potrebbe causarvi l’obbligo al risarcimento di danni provocati a terzi, se non ottemperata con diligenza. Infatti il codice civile prevede che “Il proprietario di un animale o chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso, è responsabile dei danni [art. 2056 c.c.] cagionati dall’animale , sia che fosse sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito, salvo che provi il caso fortuito [art. 1218, 1256, 2051 c.c.]”.
Quindi si può considerare il caso in cui un cane, non tenuto al guinzaglio, provochi accidentalmente la caduta di una persona, situazione in cui il padrone del cane è responsabile per danni verso il danneggiato, oppure l’esempio di un automobilista che investa un cane non tenuto al guinzaglio dal padrone e che quindi subisca dei danni dall’incidente, si pensi purtroppo ai frequenti casi di abbandono di animali per la strada specialmente d’estate.
In tutti questi casi, il padrone dell’animale è responsabile degli eventuali danni cagionati da esso ed è tenuto a custodire il suo animale con diligenza.

E il caso dei danni prodotti dalla caduta di un pezzo di cornicione o della soletta di un balcone?
Questa fattispecie è dal punto di vista pratico simile alle precedenti, anche se dal lato strettamente tecnico giuridico vi sono delle differenze la cui trattazione esula dalle finalità del presente lavoro, ed è regolata dall’art. 2053 c.c. Rovina di edificio che recita: “ Il proprietario di un edificio o di altra costruzione è responsabile dei danni cagionati dalla loro rovina, salvo che provi che questa non è dovuta a difetto di manutenzione o a vizio di costruzione [1669; c.p. 677]”.
Si pensi, a titolo di esempio, al caso della caduta di tegole, di parte del cornicione o del balcone, con conseguenti danni ad autovetture, a persone o ad altri fabbricati. Anche in tal caso per il danneggiato sarà sufficiente dimostrare che il danno è stato cagionato dalla cosiddetta rovina dell’edificio, ed il proprietario potrà liberarsi dalla responsabilità soltanto provando il caso fortuito (ad esempio : fulmine, maltempo di eccezionale gravità ecc.).

E nel caso di una caduta per il cattivo stato di un marciapiede?
E’ interessante valutare questo caso molto comune, ad esempio cadere per strada lungo un marciapiede sconnesso ed avere subito anche danni seri, oppure essere caduti di bicicletta perché accidentalmente finiti in una buca su una strada in città. Qui la fattispecie rientra nella responsabilità della pubblica amministrazione e quindi non si applica la giurisprudenza che abbiamo visto per il condominio. La responsabilità della Pubblica Amministrazione, proprietaria di una strada pubblica, per danni subiti dall’utente di detta strada, trova fondamento nella norma primaria del neminem laedere (non recare danno ad altri) ex art.2043c.c.( 2043. Risarcimento per fatto illecito. — Qualunque fatto doloso o colposo , che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno [2058] ), in applicazione della quale essa è tenuta a far sì che il bene demaniale non presenti per l’utente una situazione di pericolo occulto, cioè non visibile, non prevedibile e non evitabile, che dia luogo al cosiddetto trabocchetto o insidia stradale.
Con la sentenza n. 22592 del 1° dicembre 2004, la Corte di Cassazione ha ribadito quanto già affermato in altre sentenze, precisando che la presunzione di responsabilità dei danni causati dalla cosa in custodia di cui all’art. 2051 c.c., non si applica agli enti pubblici, ogni qual volta il bene, sia esso demaniale o patrimoniale, per le sue caratteristiche (estensione e modalità d’uso) è oggetto di una utilizzazione generale e diretta da parte di terzi che limita in concreto la possibilità di custodia e vigilanza sulla cosa.
In questi casi quindi si tenderebbe ad escludere la possibilità da parte del cittadino di vedere il diritto di avere il risarcimento del danno subito dalla Pubblica Amministrazione, salvo che il danno sia cagionato un elemento non visibile e non prevedibile (ad esempio una buca o altro)che abbia la caratteristica dell’insidia o trabocchetto.
Ci sono due orientamenti giurisprudenziali in merito alla responsabilità della Pubblica Amministrazione per i danni subiti dall’utente conseguenti ad omessa od insufficiente manutenzione delle strade pubbliche.
L’orientamento principale è quello secondo cui la tutela è esclusivamente predisposta dall’art. 2043 c.c., per cui la Pubblica Amministrazione incontra nell’esercizio del suo potere discrezionale anche nella vigilanza e controllo dei beni di natura demaniale, limiti derivanti dalle norme di legge o di regolamento, nonché dalle norme tecniche e da quelle di comune prudenza e diligenza, ed in particolare dalla norma primaria e fondamentale del neminem laedere , (art. 2043 c.c.) secondo cui la Pubblica Amministrazione è tenuta a far sì che il bene demaniale non presenti per l’utente una situazione di pericolo occulto, cioè non visibile e non prevedibile, che dia luogo al cosiddetto trabocchetto o insidia stradale.
L’altro orientamento, da ritenersi minoritario, invece prevede che la Pubblica Amministrazione sia responsabile per i danni subiti dall’utente in quanto proprietaria di una strada pubblica, ad esempio riconducendosi a quanto previsto dall’art. 2051 c.c., e assumendo che la Pubblica Amministrazione, quale custode di detta strada, per escludere tale responsabilità, deve provare che il danno recato si è verificato per caso fortuito.
L'art. 2051c.c., in tema di presunzione di responsabilità per il danno cagionato dalle cose che si hanno in custodia, in realtà trova applicazione nei confronti della Pubblica Amministrazione, con riguardo ai beni demaniali, esclusivamente qualora tali beni non siano oggetto di un uso generale e diretto da parte dei terzi, ma vengano utilizzati dall'amministrazione medesima in situazione tale da rendere possibile un concreto controllo ed una vigilanza idonea ad impedire l'insorgenza di cause di pericolo (Cass. 30 ottobre 1984, n. 5567), ovvero, ancora, qualora trattisi di beni demaniali o patrimoniali che per la loro limitata estensione territoriale consentano una adeguata attività di vigilanza sulle stesse (Cass. 7 gennaio 1982, n. 58). Rientra in questa casistica ad esempio la caduta per sulle scale bagnate per le pulizie all’interno di un edificio scolastico o sede di qualsivoglia ente della Pubblica Amministrazione. In questo caso è da ritenersi applicabile l’art. 2051c.c..
Si ha quindi un’applicabilità del 2051 solo qualora si provi la configurabilità della custodia in senso tecnico giuridico ovvero che la Pubblica Amministrazione abbia l’effettivo controllo governo ed uso della cosa, questione che ha suscitato interesse anche nel caso della manutenzione delle strade ed autostrade. La Corte di Cassazione comunque ritiene che non sia mai applicabile l’art. 2051 nei confronti della Pubblica Amministrazione per i danni causati a terzi da beni demaniali sui quali è esercitato un uso ordinario, generale e diretto da parte dei cittadini, quando l’estensione demaniale renda impossibile l’esercizio di un continuo ed efficace controllo che impedisca l’insorgenza di cause di pericolo per i terzi(applicabile alla sede stradale, le zone limitrofe che siano anch’esse di proprietà della stessa Pubblica Amministrazione), impossibilità di custodia che deve essere prudentemente accertata in concreto.
Nel caso in cui non si possa operare la presunzione dell’art. 2051 c.c. il danneggiato sarà onerato di dover provare ex art. 2043 c.c. e art.2697 c.c. (“Onere della prova. — Chi vuol far valere un diritto in giudizio [c.p.c. 99, 100] deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento [c.p.c. 115]. Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda”) anche la colpa della Pubblica Amministrazione identificata nell’istituto dell’insidia stradale (o trabocchetto), ritenuta figura giuridica costituzionalmente legittima.
Questa figura giuridica permette di distribuire tra le parti l’onere probatorio per cui se il danneggiato prova l’insidia allora la Pubblica Amministrazione è responsabile, fermo restando che anche lei non provi la sua impossibilità alla rimozione dell’insidia, adottando opportune misure. E’ quindi ravvisabile un concorso del danneggiato ex art 1227c.c. "Se il fatto colposo del danneggiato(creditore) ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate [2055]. Il risarcimento non è dovuto per i danni che il danneggiato(creditore) avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza [1175, 2056]”.)e quindi la quantificazione del danno riconosciuto a carico della Pubblica Amministrazione può essere ridotto in ragione del concorso del soggetto leso non sussistendo incompatibilità tra la responsabilità colposa della pubblica amministrazione per danno provocato dalla cosiddetta insidia o trabocchetto stradale e la norma 1227 superando così i due indirizzi sopra riportati. Quindi questa nuova chiave di lettura giuridica consente comunque una tutela più ampia per l’utente e quindi una vera redistribuzione della responsabilità per danni anche nel caso che la custodia dei beni sia esclusiva della Pubblica Amministrazione.
Certo è che l’individuazione delle insidie stradali risulta comunque sempre difficile di volta in volta per la parte lesa ma ci sono situazioni che sono state espressamente riconosciute come “insidiose” ad esempio, la coltre di gelo causata dalla mancata manutenzione, la lastra di ghiaccio non derivante da una precedente nevicata ma dal repentino raffreddamento della superficie umida, l’impianto semaforico che da un incrocio stradale segni verde per i veicoli provenienti da una data direzione di marcia e proietti luce intermittente ovvero nessuna luce per i veicoli provenienti dalla direzione di marcia perpendicolare alla prima; la presenza di un cartello non presegnalato con indicazioni luminose di direzione in ora notturna; la presenza di fanghiglia accumulatasi in avvallamento della sede stradale a causa dell’acqua piovana, con conseguente scarsa aderenza per le ruote degli autoveicoli, oggetti sporgenti ed insidiosi presenti sul tratto pedonale. In tutti questi casi l’insidia diviene parametro di misura della liceità e della legittimità dei poteri esercitati dalla Pubblica Amministrazione e quindi è possibile riconoscere caso per caso la responsabilità sia della Pubblica Amministrazione che dell’utente. Quindi nei casi in cui ad esempio il cittadino abbia reso noto alla Pubblica Amministrazione la cattiva condizione di un marciapiede che può provocare delle cadute, ed abbia quindi reso non più imprevedibile o non visibile un’insidia o trabocchetto, mettendo in condizione la Pubblica Amministrazione di poter ottemperare alla manutenzione e quindi alla custodia dei beni demaniali non solo reca un servizio di buon cittadino ma rende responsabile la Pubblica Amministrazione a prendere i provvedimenti del caso se non vuole rendersi responsabile
per il risarcimento degli eventuali danni arrecati ai propri cittadini.



Redazione: Avv. Roberto Accossato